Trentundì...

E' finito Maggio. Da quindici giorni è finito Maggio del 2010, il mese con la “M” maiuscola, i trenta giorni del condor. Trentuno, per l'esattezza, a rincorrere le parole sui tasti come se fossero ragazze dalla gonna corta, per spiare se sotto l'ombra riflessa sulle cosce c'è qualcosa di più di un pensiero banale.
E' passato veloce, questo tempo di brezze in mezzo alle stagioni portanti. Ho vinto, ho vinto io. Mi sento come se avessi scalato l'Everest a mani nude senza passare per la scocciatura delle precauzioni. Ho sorvolato le atmosfere più disparate sdraiato a pancia in su, steso su aquiloni dal movimento impazzito, scottato dai soli e bagnato dalle piogge. Non sono mai sceso sotto il livello di un'altezza ragionevole, perché per le vette che dovevo toccare servivano sogni infantili, proprio quelli che fanno volteggiare gli aquiloni. Ho pensato che non potevo scendere, avrei perso per strada troppe incertezze, e con le certezze si vive bene ma non si scrive nulla di interessante. C'è tanto bisogno di rimanere a mezz'aria quando ti rendi conto di aver spiccato il volo. Per me, che da anni osservo dall'alto della penna tutto quello che accade ad altezza d'uomo, tornare a camminare con gli altri non è più possibile e non ho nemmeno paura di scendere un attimo se promettete di riportarmi quassù.
Ho solo il timore che i tuoi occhi nascondano il vuoto che c'è attaccato alla corda dell'aquilone, ma per quello basta buttarsi con le mani in avanti e con l'esperienza delle ginocchia sbucciate so cosa vuol dire cadere nel baratro di un giorno d'esilio e ritrovarsi una notte da Campione d'Europa.